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LICEO CLASSICO

IDONEITÀ AL V° ANNO

ITALIANO

- Il Rinascimento

- Ludovico Ariosto

- Niccolò Machiavelli

- Torquato Tasso

- La Gerusalemme Liberata

- La Poesia Burlesca e Francesco Berni

- Il Seicento

- Lo Stile Barocco e il Marinismo

- Il Poema Eroicomico e Alessandro Tassoni

- Galileo Galilei

- Il Settecento

- L’Arcadia, Metastasio e Meli

- Carlo Goldoni

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RINASCIMENTO

Con il termine Rinascimento gli studiosi indicano il periodo di massima fioritura letteraria e artistica che caratterizzò l'Italia nella prima metà del Cinquecento, approssimativamente tra il 1492 (anno della morte di Lorenzo de' Medici, nonché della scoperta dell'America) e il 1545 (apertura del Concilio di Trento che segna l'inizio della Controriforma). Tale periodo viene diviso in altre due fasi definite "Rinascimento maturo" e "tardo Rinascimento", prendendo come spartiacque l'anno del sacco di Roma ad opera dei lanzichenecchi (1527), e la principale differenza tra i due momenti è il fatto che nei primi trent'anni del secolo sono attivi i principali scrittori e artisti italiani (Machiavelli, Ariosto, Michelangelo...), mentre nella seconda fase c'è carenza di grandi opere e in poesia si anticipa la tendenza del

manierismo, che caratterizzerà la successiva età della Controriforma e che consiste in un'imitazione dei modelli classici talvolta priva di originalità. Il termine Rinascimento mette l'accento soprattutto sulla ripresa dei valori classici e dell'arte dopo i secoli "bui" del Medioevo, e in questo senso il periodo si pone in forte continuità con l'Umanesimo, tanto che alcuni studiosi parlano di civiltà umanistico-rinascimentale senza vedere cesure tra i due secoli; in realtà l'età del Rinascimento, almeno sul piano letterario, prosegue sulla stessa linea di quella precedente (riscoperta dei classici, antropocentrismo, rivalutazione della natura e del corpo umano, mecenatismo delle corti...), ma con una maggiore consapevolezza e, soprattutto, con una tendenza alla codificazione e al regolismo in tutti i campi, specie in quello del comportamento e della lingua, mentre conosce un grandissimo sviluppo la stampa e viene letteralmente riscoperto il teatro classico, attraverso i due generi principali della tragedia e della commedia. Altra novità è costituita dalla riflessione politica, che con l'opera fondamentale di Machiavelli introduce il pensiero politico moderno, tagliando i ponti con la trattatistica medievale e la visione teocentrica dello Stato. Se il Rinascimento è ancora una letteratura di corte, prodotta per un pubblico per lo più selezionato di cortigiani e poco interessata al mondo esterno, vi sono tuttavia alcuni scrittori che non si riconoscono in questo modello e propongono opere di carattere affatto opposto, che ricercano squilibrio e disarmonia, quando non addirittura la parodia (è il cosiddetto antirinascimento).

Il regolismo

La codificazione dei generi letterari

Una delle principali caratteristiche del primo Cinquecento è appunto il regolismo, ovvero la tendenza a fissare norme rigorose in tutti i campi della vita sociale e della produzione artistico-letteraria in accordo con il classicismo e il riconoscimento dei valori dell'equilibrio e dell'armonia contrapposti al "disordine" del Medioevo: tale

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tendenza "normativa" trova applicazione in molti ambiti culturali, dal comportamento degli uomini di corte alla lingua, dalla prassi politica ai generi letterari, che vengono rigidamente codificati e per ognuno dei quali si fissano regole precise e modelli cui attenersi, gettando le basi per il manierismo che distinguerà l'età successiva. Questa mentalità è espressione di una letteratura e di un'arte aristocratica, che come nel Quattrocento nasce nell'ambito chiuso e raffinato della corte e viene prodotta da scrittori e artisti che si rivolgono a un pubblico selezionato, che spesso si disinteressa agli avvenimenti del mondo esterno ed è indifferente al destino delle classi subalterne, almeno per quanto riguarda la produzione più elevata. Sul piano più strettamente letterario si crea un vero e proprio canone dei principali generi della letteratura "alta", sulla falsariga di quanto già era avvenuto nell'Umanesimo e con una maggiore consapevolezza da parte degli intellettuali, e il genere più nuovo e più largamente usato nel Cinquecento diventa il trattato in prosa, dedicato ai temi più vari (il comportamento, la lingua, la politica...) e che vede tra gli interpreti i principali autori del secolo, da Machiavelli, a Bembo, a Guicciardini.

Grande sviluppo ha anche la poesia lirica, che individua naturalmente in Petrarca il modello quasi esclusivo (si parla addirittura di "petrarchismo") e che è praticata un po' da tutti gli scrittori del Rinascimento, mentre tra gli altri generi poetici occorre citare il poema epico-cavalleresco, che vede come capolavoro l'Orlando furioso di

Ludovico Ariosto e che darà luogo alle interminabili discussioni sul poema eroico della fine del secolo, sino alla Liberata di Tasso. Naturalmente tra i modelli del poema vi sono i capolavori della letteratura classica, dai poemi omerici all'Eneide, ma è indubbio che l'Orlando innamorato di Boiardo costituisca il precedente immediato e apra di fatto la strada al genere nel Cinquecento, specie riguardo alla scelta del ciclo carolingio e alla commistione con gli elementi fiabeschi del ciclo bretone che si ritrovano in Ariosto. Di derivazione più strettamente classica è invece il poemetto

didascalico, frutto per lo più dell'imitazione virgiliana (delle Georgiche soprattutto), mentre un filone minore è rappresentato dalla novellistica, a tutto vantaggio del trattato che è di gran lunga il genere in prosa più praticato. Il Rinascimento è poi il periodo in cui rinasce letteralmente il teatro classico, riscoperto grazie soprattutto alle discussioni sulla Poetica di Aristotele e largamente imitato, specie nei due generi della tragedia e della commedia pressoché sconosciuti alla letteratura medievale.

Il trattato rinascimentale

Il trattato in prosa volgare diventa il genere di gran lunga più importante nella letteratura del Cinquecento e presenta sicuramente molti elementi di modernità, tagliando i ponti con la trattatistica medievale e del XV sec. ancora legata a vecchi schemi tra cui, ad es., l'uso del latino come lingua di cultura, mentre ora il volgare

viene "sdoganato" come mezzo adatto ad affrontare temi anche elevati ed esprimere i valori di una raffinata società aristocratica. Ovviamente ciò non significa che la trattatistica non individui i suoi modelli nella letteratura classica e, anzi, il trattato

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nasce come imitazione delle opere di Platone e di Cicerone, dai quali (dall'autore latino soprattutto) trae la forma dialogica che è la più diffusa almeno nelle opere del primo Cinquecento. Il dialogo consentiva del resto di contrapporre in modo dialettico più tesi e dava al testo una veste narrativa che ne facilitava la lettura, tracciando una strada che sarà ancora percorsa nell'età successiva, almeno sino al Dialogo sopra i massimi sistemi di Galileo nel XVII sec. che, nonostante la novità e l'argomento, avrà molti punti di contatto col trattato rinascimentale. Il modello ciceroniano del dialogo è seguito da molti autori (Bembo, Castiglione, Machiavelli...) e lo schema narrativo prevede una finzione per cui alcuni interlocutori, per lo più personaggi reali del tempo, si riuniscono in una casa o in un'importante corte per discutere di un argomento e ognuno propone la sua tesi, adducendo vari argomenti; solitamente uno dei personaggi funge da portavoce dell'autore e la sua tesi finisce per prevalere ed essere riconosciuta come valida anche dagli altri, cosa che ad es. avviene nelle Prose di Bembo in cui a sostenere le idee dell'autore è il fratello Carlo, o nell'Arte della guerra di Machiavelli in cui questo ruolo è svolto da Fabrizio Colonna. Il trattato poteva spaziare veramente su tutti gli argomenti del dibattito culturale e quelli più importanti del Rinascimento sono dedicati alla politica (come il Principe di Machiavelli, al comportamento (come il Cortegiano e il Galateo, per cui si veda oltre), alla lingua, alla filosofia (come gli Asolani di Bembo), mentre un ricco filone è costituito dalla storiografia che si modernizza rispetto a quella del XIII-XV sec. e che vede tra gli autori principali soprattutto Machiavelli e Guicciardini.

La centralità del trattato nel primo Cinquecento è dimostrata anche dal fatto che il genere sia stato usato da scrittori che non si riconoscevano nella letteratura di corte e che vengono solitamente accostati al cosiddetto "antirinascimento", tra cui soprattutto

Pietro Aretino che fu autore, tra le altre cose, di alcuni dialoghi (i Ragionamenti) che non solo affrontano in modo esplicito la materia erotica, ma fanno la parodia dello stile di vita aristocratico celebrato da Bembo e Castiglione nelle loro opere (si veda oltre). In generale il successo del trattato si può ricondurre al carattere culturalmente vivace e aperto alla discussione dell'ambiente cortigiano del Cinquecento, in cui è vero che la libertà degli intellettuali si va riducendo e i cortigiani sono sottoposti a un più rigido controllo da parte del signore, ma rimane comunque una relativa indipendenza degli uomini di pensiero che stimola una riflessione su molti aspetti del reale e che nell'età successiva, oppressa dall'oscurantismo della Controriforma e della censura, non sempre sarà possibile.

I trattati di comportamento: il Cortegiano e il Galateo

Particolare diffusione ebbe nel Rinascimento il trattato comportamentale, che fissa cioè in modo "normativo" il modo d'agire degli uomini e delle donne di corte in ossequio a una visione aristocratica della vita e della società che caratterizza tutto il secolo, e tra gli autori più importanti in questo ambito troviamo Baldassarre Castiglione (1478-1529) il cui Cortegiano è considerato assieme al Principe di

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Machiavelli e alle Prose di Bembo uno dei trattati più significativi della civiltà rinascimentale. Mantovano, dotato di una seria educazione umanistica, Castiglione fu al servizio di vari signori italiani (Ludovico il Moro, Francesco Gonzaga), finché nel 1504 si stabilì alla corte di Urbino dei Montefeltro dove progettò il suo capolavoro, che pubblicò nel 1528 dopo una gestazione assai lunga e numerose correzioni e revisioni: il Cortegiano è diviso in quattro libri e si presenta come un dialogo che avviene in quattro sere alla corte urbinate della duchessa Elisabetta Gonzaga, intorno alla quale si raccoglieva un circolo di letterati e intellettuali di cui ovviamente l'autore stesso faceva parte. I principali interlocutori del dialogo sono la stessa Elisabetta, sua cognata Emilia Pio, Ottaviano e Federigo Fregoso, Giuliano de' Medici, Ludovico di Canossa, Pietro Bembo, il cardinale Dovizi da Bibbiena, ovvero il fior fiore degli uomini e delle donne di corte del Cinquecento e tutti conosciuti personalmente dall'autore (Giuliano era stato protagonista anche delle Prose di Bembo, avversario delle tesi del fratello Carlo). Il tema del trattato è la definizione del perfetto uomo di corte, di cui i vari interlocutori elencano le qualità e che deve essere nobile, sano nel fisico, esperto nelle armi e nei duelli, buon consigliere del principe, ma anche intenditore di danza e di musica e in grado di comporre versi all'occasione; la sua virtù principale dev'essere la "sprezzatura", ovvero l'estrema disinvoltura e naturalezza nel fare qualsiasi cosa senza affettazione (questo è l'argomento dei due primi libri.

Nel terzo libro si parla della "dama" di palazzo, che viene vista in modo ambivalente come figura dotata di una certa indipendenza, ma anche come "oggetto di piacere" dell'uomo e a lui subordinata (è l'accezione negativa del termine "cortigiana" che pure si diffuse nel Cinquecento e che divenne a un certo punto sinonimo quasi di prostituta). Il quarto libro torna sull'uomo di corte e della sua collaborazione col principe, mentre alla fine Bembo discetta di amor platonico e inneggia al godimento della bellezza morale, mezzo per elevarsi alla contemplazione di Dio. Su un piano inferiore si colloca invece il Galateo, trattato scritto da monsignor Giovanni Della Casa (1503-1556) e dedicato al vescovo Galeazzo Florimonte, da cui deriva il titolo: il libro si rivolge a un pubblico di classe borghese meno elevato socialmente, insegnando una serie di norme spicciole di comportamento (nella vita sociale, a tavola...) che costituiscono una specie di "decalogo" e che ancora oggi sono spesso citate come sinonimo di buona educazione, talvolta senza rapporti con l'opera originale. Nella finzione dell'opera un "vecchio idiota" (nel senso di illetterato, dietro al quale si cela l'autore) si rivolge a un giovane (forse il nipote Annibale) e gli spiega come comportarsi in società, dunque il testo non ha forma dialogica come il Cortegiano e presenta un minor grado di elaborazione, anche se il suo successo tra i contemporanei fu notevole. Il Della Casa fu autore anche di un Canzoniere di liriche di imitazione petrarchesca, per cui può essere inserito nell'ambito del "petrarchismo" al pari di Pietro Bembo e di altri scrittori del Rinascimento.

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La questione della lingua

Il regolismo del Cinquecento non poteva non occuparsi anche di una questione ancora aperta nella letteratura italiana, ovvero la definizione di una lingua volgare

che fosse adatta alla produzione di opere in prosa e in versi e che rispondesse alle esigenze di armonia e coerenza proprie della cultura rinascimentale, per cui diventava necessario fissare il "canone" anche della lingua oltre che dei generi letterari. Va detto che il volgare aveva una storia relativamente breve in Italia e mancava naturalmente una grammatica come anche un vocabolario, senza contare che la Penisola presentava una forte frammentazione linguistica; il fatto che alcuni dei principali scrittori del XIV-XV sec. si fossero espressi in fiorentino dava a questa lingua un indubbio vantaggio, ma molte erano ancora le eccezioni in tal senso (Boiardo aveva scritto l'Innamorato in volgare emiliano, per fare un solo esempio, e il poema aveva subìto già delle correzioni "toscanizzanti". Occorre anche sottolineare che l'intento degli intellettuali del XVI sec. non era certo quello di definire una lingua nazionale o di popolo, anche perché l'Italia era divisa politicamente e teatro di guerre tra i principali Stati stranieri, ma unicamente quello di creare un volgare letterario

con cui esprimere una produzione di corte, rivolta a un pubblico aristocratico in possesso della necessaria preparazione per intenderlo. Nei paragrafi seguenti sono illustrate le proposte dei principali intellettuali che si occuparono della questione, ovvero quella di Pietro Bembo, di Gian Giorgio Trissino, di Niccolò Machiavelli.

La proposta di Bembo: le Prose della volgar lingua

Pietro Bembo (1470-1547), veneziano di origine, fu uno dei principali letterati italiani del Cinquecento e un raffinato uomo di corte, che nella sua vita soggiornò a

Firenze (dove entrò in contatto con l'Accademia Platonica di Marsilio Ficino), a

Ferrara (dove ebbe rapporti con Lucrezia Borgia), a Urbino presso i Montefeltro, mentre nel 1539 fu nominato cardinale da papa Paolo III; scrisse vari trattati, tra cui gli Asolani (1505), un dialogo di argomento neoplatonico e amoroso ambientato ad Asolo presso la residenza dell'ex-regina di Cipro Caterina Corner, e fu autore anche di poesie liriche che lo fanno rientrare nel "petrarchismo" rinascimentale (sul punto si veda oltre). La sua opera più importante sono tuttavia le Prose della volgar lingua, un trattato in tre libri pubblicato nel 1525 in cui affronta la questione della lingua letteraria e propone come tesi l'adozione del fiorentino del Trecento, attraverso i modelli di Petrarca per la poesia e di Boccaccio per la prosa: Bembo immagina che si svolga un dialogo in casa di suo fratello Carlo, a Venezia, della durata di tre giorni in cui si confrontano come interlocutori lo stesso Carlo Bembo (suo portavoce), Giuliano de' Medici, Federigo Fregoso, Ercole Strozzi. Alla tesi sostenuta dal fratello, ovvero l'adozione come modello letterario del fiorentino del XIV sec. giudicato superiore, si contrappone soprattutto la posizione di Giuliano de' Medici, che

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argomenta la necessità di usare invece il fiorentino contemporaneo, tesi affermata anche da Machiavelli nel Discorso intorno alla nostra lingua. Giuliano contesta la proposta di Carlo parlando di "lingua dei morti", essendo il fiorentino di Petrarca e Boccaccio non più attuale, ma la superiorità della lingua del Trecento è affermata sia sul piano strettamente formale che su quello dell'autorità, potendo appoggiarsi al modello di due prestigiosi scrittori come gli autori del Canzoniere e del Decameron (per quanto Boccaccio andasse imitato per la lingua dell'Introduzione e non tanto delle novelle. Nel terzo libro delle Prose Bembo delinea inoltre una grammatica del volgare a partire dall'esempio dei due autori trecenteschi, ed è chiaro che il suo intento è definire una lingua che sia strumento letterario a uso e consumo di un pubblico di corte, espressione del suo raffinato modo di vivere e pertanto lontanissima da quella del popolo alla quale "non dee... accostarsi".

La "soluzione" proposta da Bembo trovò molti detrattori e venne avversata con vari argomenti, tuttavia risultò vincente in quanto rispondeva all'esigenza della cultura rinascimentale di "normare" attraverso l'imitazione di grandi modelli e trovò di lì a poco uno straordinario interprete in Ludovico Ariosto, che (pur essendo emiliano) decise di riscrivere il Furioso adottando la lingua di Bembo e il successo della terza edizione del poema determinò anche quello della proposta dell'intellettuale veneziano, destinata a oscurare le altre. Il fiorentino letterario di Bembo si impose dunque come la lingua della letteratura in Italia e fu adottata dai principali scrittori dei secoli successivi, tanto che si parlò di "bembismo" e tale orientamento influenzò profondamente lo sviluppo culturale in Italia, almeno sino all'Ottocento quando la questione linguistica verrà nuovamente sollevata e diversamente risolta da

Alessandro Manzoni. Va detto inoltre che le posizioni di Bembo influenzarono in parte la nascita dell'Accademia della Crusca di Firenze, alla fine del Cinquecento, istituzione che produrrà nel 1612 la prima edizione di un vocabolario del volgare fiorentino quale strumento sino ad allora inesistente in Italia.

La proposta di G. G. Trissino e N. Machiavelli

Alle tesi sostenute da Bembo nelle Prose e risultate poi vincenti si contrapposero varie altre posizioni, tra cui quella più originale fu espressa dal letterato vicentino

Gian Giorgio Trissino (1478-1550) al centro di un interessante "caso letterario" riguardante il De vulgari eloquentia di Dante, opera di cui si erano perse le tracce da tempo: Trissino ne pubblicò una traduzione nel 1529, asserendo di aver trovato non si sa dove il manoscritto, e se ne servì per corroborare le proprie tesi linguistiche facendo proprie quelle dantesche del trattato latino. Com'è noto, Dante nel De vulgari negava al fiorentino la superiorità linguistica e definiva il "volgare illustre" come una sorta di lingua composita, comprendente i migliori elementi dei volgari d'Italia, per cui Trissino appoggiandosi all'autorità dantesca asseriva che la lingua letteraria non dovesse essere il fiorentino del Trecento come sostenuto da Bembo, bensì una sorta

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di koiné sovraregionale che mettesse insieme le lingue di tutte le corti d'Italia, per quanto tale soluzione fosse artificiosa e di difficile attuazione. Le inattese rivelazioni sul trattato dantesco sollevarono un vespaio di polemiche e molti intellettuali negarono l'autenticità dell'opera, mentre altri accusarono addirittura Trissino di aver prodotto un falso. Lo scrittore espose le sue tesi linguistiche in un trattato edito nel 1529, Il castellano, che inscena un dialogo svoltosi a Roma tra Giovanni Rucellai, comandante della fortezza papale di Castel Sant’Angelo (da cui il titolo) e portavoce delle idee dell'autore, lo scrittore napoletano Jacopo Sannazaro e il fiorentino

Filippo Strozzi; Trissino delinea anche una grammatica ideale del volgare e propone alcune innovazioni ortografiche, come l'uso delle lettere greche ε, ω per indicare la "e" aperta e la "o" chiusa (ne farà uso in alcune opere a stampa, anche se la riforma verrà presto abbandonata). La proposta di Trissino non poteva essere accolta per l'oggettiva difficoltà di essere messa in pratica e fu presto oscurata da quella di Bembo indubbiamente più pratica, anche se lo scrittore ebbe il merito soprattutto di aver riportato alla luce il trattato dantesco dopo circa due secoli di oblio.

Decisamente diversa la proposta avanzata invece da Niccolò Machiavelli nel Discorso intorno alla nostra lingua (1524-25), operetta di non certa attribuzione in cui l'autore del Principe sostiene la necessità di usare il fiorentino contemporaneo

come volgare letterario, scelta peraltro da lui adottata in tutte le sue opere e avente come vantaggio il fatto di essere una lingua attuale, viva e non confinata nei libri come il fiorentino letterario di Bembo. Nel testo l'autore immagina persino un dialogo con Dante accusandolo di aver infamato il fiorentino nel De vulgari (la cui autenticità non mette in dubbio), rimprovero che il grande poeta nella finzione accetta. La proposta di Machiavelli, certamente più pratica di quella degli altri autori citati, venne tuttavia trascurata in quanto non presentava dei modelli prestigiosi come il "bembismo" e non rispondeva all'esigenza di fissare rigorose regole grammaticali, inoltre lo scrittore fiorentino era visto come uomo politico più che letterato di professione e forse era giudicato estraneo al circuito di quella letteratura di corte nell'ambito della quale il problema della lingua veniva dibattuto.

Riflessione politica e storiografia

Il Rinascimento, pur essendo un periodo di splendida fioritura letteraria e di grande sviluppo delle corti come centro di diffusione culturale, coincise tuttavia con una fase di grave crisi politica e militare dell'Italia il cui punto di partenza si può individuare nella morte di Lorenzo de' Medici (1492) e nella fine della sua politica di equilibrio, cui seguì già nel 1494 la discesa in Italia delle truppe di Carlo VIII: si aprì per il nostro Paese un'età di grave instabilità in cui le principali potenze europee (Francia e Impero, soprattutto) si disputarono il controllo di importanti porzioni del nostro territorio in guerre sanguinose, sino alla pace di Cateau-Cambrésis del 1559 che segnò di fatto la "spartizione" dell'Italia a tutto vantaggio della monarchia spagnola e l'inizio di un lento declino sociale ed economico destinato a influenzare

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profondamente la successiva storia italiana. Alcuni scrittori del primo Cinquecento ebbero chiarissima coscienza di questa crisi e ne analizzarono le origini e i possibili rimedi in molte loro opere, giungendo a conclusioni non sempre concordi: fra questi ebbe un'importanza decisiva Niccolò Machiavelli, che nel Principe e nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio ricondusse le cause del declino al problema delle milizie mercenarie e auspicò che gli Stati italiani ancora indipendenti si dotassero di armi proprie, riconquistando militarmente la loro indipendenza (nel Principe egli si rivolge a un sovrano ideale spiegandogli con quali criteri governare, per cui anche questo trattato riguarda in fondo il comportamento. Machiavelli ebbe il merito di modernizzare la riflessione politica e di elevare quest'ultima al rango di una "scienza" vera e propria, svincolandola dalle questioni morali, benché la sua visione dei problemi militari fosse alquanto miope e non tenesse conto del progresso riportato ad es. dalle armi da fuoco, che avevano rivoluzionato il modo di combattere le guerre e che lui colpevolmente sottovalutava. Lo scrittore fiorentino era legato a una visione politica ancora di tipo "classico", che paragonava il governo degli Stati italiani all'antica Repubblica di Roma (specie riguardo all'organizzazione degli eserciti) e ciò costituisce il limite più evidente alle sue dottrine politiche, che pure nascevano anche dalla diretta osservazione degli Stati europei e non solo della speculazione teorica, come avveniva per lo più nel XV sec.

Di tipo diverso e più pragmatico invece la riflessione del suo concittadino Francesco Guicciardini, meno incline ad accostare i fatti italiani moderni alla storia antica di Roma (famosa la sua polemica con Machiavelli su questo punto) e più consapevole del fatto che le vicende italiane andassero inquadrate in un contesto più ampio ed europeo, cosa che fece nella sua Storia d'Italia che costituisce la prima vera opera di storiografia moderna del Cinquecento italiano. Guicciardini fu infatti più storico che pensatore politico e la sua opera mostra già la tendenza a descrivere i fatti in modo

oggettivo, appoggiandosi a documenti e "pezzi d'archivio" in modo innovativo e aprendo la strada ad altri storici attivi nel secolo seguente, per quanto la sua opera ancora risenta di un'impostazione ispirata dai grandi storiografi latini, da Sallustio a Livio.

Accanto a Machiavelli e Guicciardini, i principali scrittori di storia e politica del primo Cinquecento, vanno ricordati altri storici minori che pure contribuirono al dibattito culturale a un livello inferiore, tra cui Benedetto Varchi (1503-1565), fiorentino, autore di una Storia fiorentina in 16 libri molto benevola verso la signoria dei Medici, e Pier Francesco Giambullari (1495-1555), anche lui di Firenze e autore di una Storia d'Europa dall'887 al 947 e che è interessante più per il valore oratorio che scientifico. Affine al genere storiografico è poi l'aretino Giorgio Vasari

(1511-1574), pittore, architetto e autore delle Vite dei più eccellenti architetti pittori et scultori italiani da Cimabue insino a' tempi nostri, una raccolta di oltre duecento biografie di artisti che costituisce la prima del genere in Italia e nella quale lo scrittore definì il canone dell'arte italiana fra Trecento e Cinquecento, influenzando non poco lo sviluppo della storia dell'arte sino al tardo Settecento.

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La corte come centro culturale

Nonostante la crisi politica che investe l'Italia agli inizi del Cinquecento, le corti

mantengono il loro ruolo di primo piano come centri di diffusione culturale e mecenatismo, il che vale soprattutto per quella dei Medici a Firenze e quella degli Este a Ferrara, senza scordare la Roma dei papi tra i principali committenti artistici. Questo non toglie però che la corte rinascimentale sia un ambiente diverso da quella del XV sec., nel senso che il signore diventa un sovrano più attento alle dinamiche politiche e all'uso dell'arte e della letteratura come strumento per accrescere il proprio prestigio e, di conseguenza, lo scrittore vede diminuire la propria libertà d'azione e diviene sempre più uno "stipendiato" del principe a cui è legato economicamente e a cui deve obbedienza, da pagare il più delle volte in "opere d'inchiostro" (così si esprime Ariosto nel proemio dell'Orlando furioso, alludendo al carattere encomiastico della propria opera). Il rapporto fra letterato e principe è sempre meno di tipo paritetico e fondato sulla generosità del signore, come nel caso di Lorenzo de' Medici e dei poeti della sua cerchia, e la reazione dei principali autori del Rinascimento di fronte a questa mutata situazione è diversa, a seconda delle circostanze e anche del temperamento dei singoli individui: Machiavelli non sembra risentire di questo mutato clima culturale e anzi, dopo il ritorno dei Medici a Firenze nel 1512, tenta in ogni modo di mettersi al loro servizio, scrive il Principe per cattivarsi il loro favore e dimostrare la propria competenza politica, una volta rientrato nella loro cerchia scrive le Istorie fiorentine come opera encomiastica che sottolinea la grandezza della loro famiglia.

Differente è il caso di Ariosto, che invece sopporta con fatica il ruolo subordinato cui lo costringono le difficoltà economiche ed entra in rotta con il cardinale Ippolito d'Este, che rifiuta di seguire in Ungheria, venendo tuttavia costretto a entrare al servizio del duca Alfonso I per l'impossibilità di mantenersi (l'acquisto di una casa propria a Ferrara verrà vissuto come una sorta di "emancipazione" economica, come testimonia il celebre distico che vi fece scrivere sulla facciata; Ariosto affronta il tema del rapporto tra il cortigiano e il suo signore in varie opere, a cominciare dalla Satira I in cui si giustifica per la scelta di non seguire Ippolito in Ungheria e tratteggia la triste vita dell'uomo di corte, costretto a compiacere il principe in ogni suo capriccio, mentre la vita di corte è messa alla berlina anche nel celebre episodio del Furioso in cui Astolfo va sulla Luna e vede le cose sprecate sulla Terra, molte delle quali attinenti al "servir de le misere corti". In ogni caso la vita di corte nel Rinascimento presentava luci ed ombre e non c'è dubbio che molti intellettuali considerassero l'ambiente cortigiano come positivo e in grado di stimolare opere innovative (anche sul piano teatrale, per cui si veda oltre), fatto testimoniato dalla

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celebrazione che di quello spazio viene fatta in molte importanti opere, a cominciare naturalmente dal Cortegiano di Baldassarre Castiglione. Gran parte della produzione letteraria (e artistica) del Rinascimento nasce all'interno della corte per un pubblico aristocratico e gli scrittori che non si riconoscono in questo modello culturale se ne distaccano in modo netto, come nel caso di F. Berni o P. Aretino che proprio per questo vengono inseriti nel cosiddetto "Antirinascimento", per quanto tale definizione contenga molte ambiguità (sul punto si veda oltre). Da sottolineare inoltre che il carattere "cortigiano" della letteratura italiana si manterrà anche nei secoli successivi, pur con sfumature diverse (nella Controriforma la corte riduce notevolmente gli spazi di libertà e indipendenza dello scrittore, come il caso di

Torquato Tasso dimostra) e solo nel Settecento con l'Illuminismo nascerà una letteratura di tipo sociale e attenta ai bisogni della popolazione, non più destinata solo all'intrattenimento di un pubblico aristocratico.

La lirica amorosa e il "petrarchismo"

Il genere della lirica amorosa è nel Cinquecento il corrispettivo del trattato in prosa, dal momento che tale filone è straordinariamente diffuso ed è praticato da letterati di professione e non, inoltre viene fissato un "canone" che influenzerà profondamente il successivo sviluppo della poesia "alta" per almeno tre secoli, almeno sino alla novità delle poetiche romantiche di inizio Ottocento. Il modello privilegiato e quasi esclusivo di tale lirica è ovviamente Petrarca, per quanto il grande poeta del Trecento fosse conosciuto e apprezzato in età umanistica soprattutto per l'opera latina e il solo ad essersi ispirato alla sua poesia volgare era stato Boiardo, autore di un Canzoniere che anticipava molte delle caratteristiche della lirica rinascimentale.

Nel Cinquecento nasce invece un vero e proprio "culto" della poesia petrarchesca e i Rerum vulgarium fragmenta diventano un'opera studiata e imitata, portando alla nascita di una scuola poetica che gli studiosi moderni chiamano "petrarchismo" e che eserciterà un'influenza grandissima sulla poesia italiana: Petrarca è indicato quale modello di stile e versificazione, ma anche di lingua (specie dopo che le Prose di Bembo lo avevano scelto quale fonte privilegiata per la poesia, per cui si veda sopra) e di comportamento, dal momento che il Canzoniere sembrava rispondere a quell'idea aristocratica di società che i trattati del Rinascimento celebravano, per quanto tale posizione fosse ai limiti della forzatura. Il risultato fu che a comporre versi alla maniera di Petrarca furono un po' tutti e gli imitatori scarsamente originali crebbero a dismisura, al punto che si stamparono persino dei manuali di versificazione secondo il modello del Canzoniere, detti "petrarchini", mentre è indubbio che gli esiti artistici di molti epigoni furono decisamente scadenti e il termine "petrarcheggiare" assunse presto un'accezione negativa, nel senso di un'imitazione fiacca e di maniera.

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Tra i petrarchisti più seri e originali vi sono i principali scrittori del secolo e tra essi va incluso anzitutto Ludovico Ariosto, autore di Rime di indubbia ispirazione petrarchesca anche se dotate di una certa originalità, mentre il principale autore di poesie amorose fu naturalmente Pietro Bembo, il cui Canzoniere è modellato quale imitazione di quello trecentesco e in cui l'interesse centrale è per la lingua di Petrarca, con una certa attenzione all'amore platonico che l'autore aveva rielaborato sulla base del neoplatonismo dell'Accademia di Firenze e che è trattato anche negli Asolani. Figura in parte simile è poi quella di Giovanni Della Casa, l'autore del Galateo (si veda sopra) che produsse anche lui un Canzoniere di stretta imitazione petrarchesca, benché con degli accenti patetici ed enfatici estranei all'autore del Trecento.

Merita una citazione particolare anche Michelangelo Buonarroti (1475-1564), il principale pittore, scultore e architetto del Rinascimento la cui attività letteraria ebbe un ruolo marginale e che tuttavia scrisse dei versi rientranti nel petrarchismo e ispirati al neoplatonismo di stampo "bembiano", dedicati all'amore per un giovinetto (il romano Tommaso de' Cavalieri, conosciuto nel 1532; e a Vittoria Colonna, che corteggiò vanamente sino alla morte di lei nel 1547.

La stessa Vittoria Colonna fu poetessa, nonché nobildonna e "cortigiana" tra le più celebrate del secolo, e la sua figura si può accostare a quella di altre scrittrici contemporanee (Veronica Gambara, Tullia D'Aragona, Gaspara Stampa...) i cui canzonieri si ispirarono variamente a Petrarca e che costituirono un vero filone di "letteratura femminile" senza precedenti in Italia, destinato a rimanere un caso isolato almeno sino alla fine del Settecento. Completano il quadro del petrarchismo di alto livello i cosiddetti lirici meridionali, tra cui i napoletani Angelo di Costanzo e

Galeazzo di Tarsia autori di versi lontani dal manierismo di Bembo e dotati di un certo vigore passionale, apprezzati anche nel secolo successivo.

La "rinascita" del teatro classico

Nel Medioevo l'attività teatrale era rimasta estranea dalla letteratura colta e le sole forme di spettacolo fino al XV sec. erano state il teatro di strada dei giullari e le

sacre rappresentazioni legate alle manifestazioni religiose, mentre il primo dramma di argomento profano e di derivazione classica in Italia fu nel 1480 la Fabula di Orfeo di Poliziano, non ancora rientrante in un preciso genere teatrale.

L'interesse per il teatro classico e le sue forme rinasce invece nel Cinquecento, quando viene riscoperta la tragedia attica del V sec. a.C. che ora viene letta in lingua originale (grande importanza in questo senso ha il ritrovamento del I libro della Poetica di Aristotele, dedicato proprio al genere tragico) e ben presto si iniziano a scrivere tragedie moderne in volgare che rientrano nella codificazione dei generi letterari del classicismo aristocratico, mentre la commedia latina viene anch'essa studiata e imitata, anche se il teatro comico si colloca su un piano letterario più basso

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e talvolta rivolto a un pubblico popolare, per quanto abbia avuto grandi interpreti in età rinascimentale. Inizialmente il teatro cinquecentesco nasce nell'ambiente della

corte e (specie la tragedia) è indirizzato a un pubblico aristocratico, anche se nel corso del secolo l'attività teatrale avrà una certa diffusione sociale e avrà luogo anche in edifici pubblici destinati alle rappresentazioni sceniche, antenati dei teatri più moderni. Ecco in breve le principali opere e gli autori del teatro nella prima metà del XVI sec.

La tragedia

Il punto di partenza della rinascita della tragedia è il ritrovamento del I libro della Poetica di Aristotele, che tracciava una storia della tragedia ateniese dell'età classica e ne analizzava contenuti e caratteristiche, pur non avendo alcun intento prescrittivo come invece parve ai dotti del Rinascimento. Tradotto in latino nella prima metà del XVI sec., il trattato ebbe enorme diffusione e spinse gli intellettuali a fissare un "canone" e a stabilire le regole costitutive della tragedia, che ha come protagonisti personaggi d'eccezione e d'alto rango, è incentrata su un contrasto insanabile tra l'eroe e il suo fato, si pone come fine la "catarsi" (purificazione) dalle passioni dell'animo. Gli studiosi ritennero inoltre che Aristotele enunciasse delle norme anche riguardanti lo svolgimento dell'azione scenica, che doveva riguardare un'unica vicenda e compiersi in un solo luogo e nell'arco di una giornata, le cosiddette unità aristoteliche di azione, tempo, luogo che in realtà rappresentano una forzatura del testo originale (Aristotele si limitava a osservare che quasi tutte le tragedie greche avevano tali caratteristiche, ma non le indicava come regole ferree). La tendenza al regolismo e all'imitazione dell'autorità indussero tuttavia i dotti a intendere i "precetti" del grande filosofo in senso letterale e le tragedie scritte nel Cinquecento obbedirono quasi sempre a questo rigido schema, influenzando non poco il successivo sviluppo del genere tragico almeno fino ad Alfieri nel XVIII sec., mentre il primo autore italiano a ribellarsi a questo dogmatismo fu Alessandro Manzoni agli inizi dell'Ottocento. Solitamente la tragedia veniva divisa in cinque atti, benché quella classica avesse una diversa ripartizione, e fu ridimensionato il coro che invece aveva una parte essenziale nel teatro greco, così come vennero eliminati la musica e il canto anch'essi fondamentali nella tragedia classica.

Tra gli autori che si cimentarono nel genere vi fu anzitutto Gian Giorgio Trissino, il letterato vicentino al centro della questione della lingua (si veda sopra) che nel 1515 scrisse la Sofonisba, forse il primo esempio di tragedia nel Rinascimento che utilizzava il metro dell'endecasillabo sciolto, poi diventato di gran moda e usato anche nelle traduzioni dal latino. Altri scrittori tragici nel Cinquecento furono Luigi Alamanni, autore dell'Antigone, e Giovanni Rucellai, autore della Rosmunda e dell'Oreste, entrambi letterati di corte che produssero anche poemetti didascalici (si veda oltre); compose tragedie anche Giambattista Giraldi Cinzio, autore di testi

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quali Didone (1542) e Cleopatra (1543) e di discussioni teoriche intorno ai testi teatrali, come il discorso Intorno al compor delle commedie e delle tragedie del 1543. Tra i modelli seguiti dai tragediografi vi furono senz'altro gli autori attici del V sec. a.C., ma grande spazio ebbe anche lo scrittore latino Seneca che ispirò un'atmosfera spesso cupa e lugubre, elemento che andò accentuandosi nello sviluppo del genere tragico nella successiva età della Controriforma.

La commedia

Anche il genere comico conobbe un grande sviluppo nel Cinquecento e se, da un lato, ci fu una produzione più "artigianale" e destinata a un pubblico popolare, spesso in dialetto e realizzata da compagnie di attori dilettanti (come quelle "della calza", composte da aristocratici appassionati), dall'altro si scrissero commedie colte e ispirate al teatro latino di Plauto e Terenzio, i cui testi erano stati riscoperti nel Quattrocento ed erano stati studiati e imitati da molti intellettuali. Questo teatro comico più elevato ebbe interpreti d'eccezione e nacque spesso all'interno della corte

come intrattenimento di un pubblico di nobili, ma anche come strumento usato dal principe per celebrare la sua famiglia e dare si sé un'immagine prestigiosa; le commedie venivano recitate nei cortili delle ville signorili, poi al chiuso dei palazzi con un apparato scenografico sempre più raffinato, per cui si può affermare che questo genere rientri pienamente nel classicismo aristocratico del secolo e solo in alcuni casi diventa espressione di una letteratura diversa e sperimentale, anticipando soluzioni che si svilupperanno soprattutto nel secolo seguente. Tra i commediografi principali va ricordato anzitutto Niccolò Machiavelli , autore della Mandragola e della Clizia che sono tra i testi più significativi del teatro rinascimentale (la Mandragola è anzi la commedia italiana più famosa del Cinquecento), mentre importante fu anche l'attività scenica di Ludovico Ariosto, che scrisse alcune commedie in prosa e versi curandone personalmente l'allestimento alla corte di Ferrara (i modelli sono Plauto e Terenzio e il suo teatro influenzò non poco il genere comico nella letteratura del tempo). In polemica con quest'ultimo si colloca invece il cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena, autore della Calandria che fu rappresentata alla corte di Urbino nel 1513 e poi a Roma alla presenza del papa, commedia più moderna e meno aderente ai modelli latini (per quanto la trama si rifaccia ai Menaechmi di Plauto), nonché scritta in prosa e in volgare come spiega il Prologo firmato da Baldassarre Castiglione: la trama si gioca sull'equivoco per cui i due protagonisti, i gemelli Santilla e Lidio, sono talmente simili che la ragazza viene creduta un uomo e viceversa, al punto che Lidio, amante della moglie di Calandro

(un uomo sciocco come il Calandrino del Decameron e che dà il titolo alla commedia) fa innamorare di sé l'uomo che lo crede una donna, con prevedibili beffe e atroci scherzi ai danni del povero credulone.

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Da ricordare anche Anton Francesco Grazzini, detto il Lasca, autore di commedie vivaci scritte in fiorentino popolare che anticipano soluzioni proprie della commedia dell'arte, mentre è anonima la Venexiana, composta forse nel 1535 e che alterna fiorentino letterario, veneziano e bergamasco, collocandosi nel filone della letteratura anticlassicista (il tema è realistico e narra di uno spregiudicato triangolo amoroso tra due nobildonne e un giovane milanese). Una citazione a parte meritano poi due autori che non si riconoscono nella letteratura di corte e si inseriscono nel cosiddetto "antirinascimento", per il quale si veda oltre: Pietro Aretino, poligrafo e autore di scritti vari, che ha composto cinque commedie (La cortigiana, Il marescalco, La Talanta, Lo ipocrito, Il filosofo) di ambientazione moderna e trattanti temi realistici, molto lontane dal teatro comico classicista di Ariosto; e Angelo Beolco, detto il

Ruzante, nelle cui commedie trattò temi altrettanto attuali (ad esempio la crisi socio-economica di Venezia in quegli anni) e usò il dialetto, mentre il ricorso alle

maschere anticipa la commedia dell'arte del secolo seguente, essendo tra l'altro quello di Ruzante (il contadino padovano poltrone e famelico) uno dei personaggi-maschera ricorrenti del suo teatro.

Il poemetto didascalico e le traduzioni

L'imitazione classicista del Rinascimento produsse anche generi relativamente nuovi e che si ispiravano ad opere non di primissimo piano della letteratura greca e latina, come nel caso del poemetto didascalico: i modelli di riferimento erano ovviamente Le opere e i giorni di Esiodo e, soprattutto, le Georgiche di Virgilio, che stimolarono la produzione di operette di argomento simile sia pure adattate ai tempi e i cui esiti artistici non sempre furono felici. Tra gli autori più significativi ricordiamo Luigi Alamanni (1495-1556) e Giovanni Rucellai (1475-1525), già ricordati quali autori di tragedie e che scrissero rispettivamente La coltivazione e Le api, ispirati alle Georgiche di Virgilio (il secondo poemetto si rifà in particolare al quarto libro del testo latino e alla favola di Aristeo). Si tratta di opere prive di un reale interesse per la materia e destinate principalmente all'intrattenimento colto di un pubblico aristocratico, oltre all'abilità sfoggiata nel rifare in lingua volgare il genere didascalico della poesia latina; interessante l'uso dell'endecasillabo sciolto come metro, usato spesso anche nel teatro e destinato a grande fortuna nei due secoli successivi, almeno fino al Settecento.

L'endecasillabo sciolto fu utilizzato anche nei primi esperimenti di traduzione in volgare di grandi opere della letteratura latina, tra cui vanno citate soprattutto quella delle Metamorfosi di Ovidio ad opera di Giovanni Andrea dell'Anguillara (nel 1561), una parafrasi più che una vera traduzione letterale, e quella dell'Eneide di Annibal Caro (pubblicata postuma nel 1581), che riscosse grande successo e aprì la strada ad altri tentativi analoghi nelle età successive. Il Caro fu del resto uno dei letterati e degli uomini di corte più interessanti del Rinascimento, autore tra le altre cose anche di versi petrarchisti, di sonetti satirici, di una commedia; tradusse anche la Poetica di

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Aristotele, il trattato che influenzò profondamente il genere tragico nel Cinquecento, e le Lettere a Lucilio di Seneca, lasciandoci inoltre un gran numero di lettere che offrono testimonianze preziose sull'attività culturale del periodo del Rinascimento.

La novellistica

Genere in prosa di minore importanza rispetto al trattato, la novella conosce comunque una certa diffusione nel Cinquecento prendendo a modello il Decameron di Boccaccio, scelta pressoché obbligata non solo per lo straordinario successo dell'opera ma soprattutto in quanto Bembo nelle Prose l'aveva indicato come modello linguistico per la prosa (si veda sopra), anche se il Rinascimento non produsse capolavori della novellistica e nessuno degli scrittori principali si cimentò in questo filone letterario. Il nome più importante è quello di Matteo Bandello (1480-1561), domenicano, al servizio di vari signori nell'Italia settentrionale (lui era originario di Castelnuovo Scrivia nell'alessandrino) e autore di 214 novelle divise in quattro parti, le prime tre edite nel 1554 e la quarta, postuma, nel 1573. I racconti non sono inseriti in una cornice ma ognuno è preceduto da una lettera dedicatoria indirizzata a un illustre personaggio del tempo, in cui l'autore precisa in quale occasione abbia sentito raccontare la novella che segue; le lettere forniscono un quadro interessante della società di corte alla quale lo scrittore apparteneva e suggeriscono che le novelle vengano raccontate in riunioni signorili, fra gentiluomini e dame che si "intrattengono" ascoltando appunto i racconti (nella lettera proemiale Bandello afferma che le novelle possono "giovar altrui e dilettare"). La lingua non è il fiorentino letterario in quanto l'autore, che si definisce "lombardo" (cioè abitante della Val Padana), preferisce usare la propria parlata settentrionale, sia pure depurata dagli elementi più spiccatamente popolari. Altri narratori furono Anton Francesco Grazzini, detto il Lasca, già citato quale autore di commedie e che raccolse nelle Cene 22 novelle raccontate da una brigata di signori costretti in casa dal cattivo tempo (dunque con una cornice simile a quella del Decameron, cui lo scrittore dichiaratamente si ispira), mentre Luigi Da Porto fu autore della novella di Romeo e Giulietta rielaborata dal Bandello e successivamente ripresa da Shakespeare nella tragedia omonima, destinata a un successo internazionale.

L'Antirinascimento

Il classicismo aristocratico non esaurisce il panorama letterario del primo Cinquecento, in cui molti scrittori (diversi per estrazione sociale e interessi) non si riconoscono nel modello culturale e sociale della poesia di corte e producono opere completamente diverse, che rifiutano il "regolismo" e l'imitazione dei modelli e, al contrario, propongono un forte sperimentalismo di stile e di lingua, non di rado con intenti parodistici verso la letteratura colta. Questo filone letterario viene definito "Antirinascimento", per quanto tale definizione sia piuttosto ambigua e non metta

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d'accordo tutti gli studiosi, che sottolineano la non omogeneità di questo gruppo di scrittori: fra essi vi sono infatti personaggi colti e dalla solida preparazione umanistica (come l'Aretino o Berni) che passano da opere serie e destinate a un pubblico elevato a testi dissacranti e provocatori, mentre altri autori (come il

Folengo) si dedicano principalmente alla ricerca di un nuovo linguaggio con intenti ironici e parodistici, restando ai margini della letteratura più alta. Molti di questi scrittori si ispirano a modelli del tutto diversi rispetto ai classicisti, soprattutto alla poesia comica del Due-Trecento e a Pulci, e alcuni di loro aprono delle nuove strade che saranno percorse da autori successivamente, non solo in Italia (è il caso di

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LUDOVICO ARIOSTO

Ludovico Ariosto (Reggio Emilia, 1474 - Ferrara, 1533) è stato uno dei più importanti poeti italiani dell'epoca rinascimentale e uno dei principali scrittori della nostra tradizione. Di famiglia nobile ma con difficoltà economiche, è stato uomo di corte e di quell'ambiente ha sperimentato aspetti positivi e negativi, pur vivendo per anni a Ferrara presso gli Este cui la sua fama è indiscutibilmente legata. Si è cimentato nei generi poetici più diversi, scrivendo rime di ispirazione petrarchesca, satire (uno dei pochi esempi della letteratura del XVI sec.) e commedie, dedicando al teatro una parte non irrilevante della sua attività di scrittore. Il suo capolavoro assoluto resta comunque l'Orlando Furioso, il poema epico-cavalleresco che prosegue idealmente il racconto dell'Innamorato e lo adatta al nuovo sentire del Rinascimento, nel quale l'autore fa confluire il suo vissuto e la sua visione del mondo dominando il tutto con ironia e maestria sapiente di grande scrittore (l'opera ha avuto anche il merito, non trascurabile, di aver imposto la soluzione della lingua proposta da Bembo). Il poema fu accompagnato da uno straordinario successo tra il pubblico delle corti ed è tuttora una delle opere italiane più note al mondo, avendo prodotto anche adattamenti teatrali, televisivi e rifacimenti letterari in chiave moderna come quello di Italo Calvino.

Biografia

La giovinezza e il servizio a Ippolito d'Este

Ludovico Ariosto nacque l'8 settembre 1474 a Reggio Emilia, da Niccolò (capitano della rocca della città) e Daria Malaguzzi Valeri. La famiglia era nobile ma di condizioni economiche non agiate (Ludovico era primo di dieci fratelli), così il padre lo spinse a seguire gli studi di legge a Ferrara, cui il giovane si adattò con poco entusiasmo e scarso profitto; più tardi ottenne di dedicarsi alla formazione umanistica, anche se imparò bene il latino e male il greco contrariamente all'impostazione classicista del secolo. Nella sua gioventù condusse una vita brillante ed ebbe varie relazioni amorose, sino al 1500 quando la morte del padre lo costrinse a occuparsi della famiglia (il cui patrimonio era in dissesto) e a entrare al servizio degli

Este, i signori di Ferrara: nel 1502 divenne capitano della rocca di Canossa e nel 1502 fu nominato segretario del cardinale Ippolito, fratello del duca Alfonso I. Iniziò un periodo travagliato per l'Ariosto, continuamente impegnato in viaggi e missioni diplomatiche per conto del suo signore (era diventato "di poeta, cavallaro", come lui stesso scrisse nelle Satire, VI.238) e talvolta con rischio per la propria persona, come nel 1512 quando lui e il duca furono a Roma presso Giulio II e incorsero nell'ira del papa, salvandosi per miracolo. Ariosto, che nel frattempo aveva

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iniziato la composizione del Furioso, avrebbe voluto dedicare più tempo alla letteratura e questo inasprì i rapporti col cardinale, che per di più era un uomo alquanto rozzo e sordo alle lettere, anche se a lui è dedicata la prima edizione del

poema apparsa nel 1516 (alcuni videro tuttavia nelle parole di elogio una punta di ironia). Nel 1513 conobbe a Firenze Alessandra Benucci, moglie di Tito Strozzi, e tra i due iniziò una relazione sentimentale che sarebbe durata tutta la vita, anche se all'inizio il rapporto fu tenuto segreto per il fatto che lei era sposata e perché lui non voleva rinunciare a privilegi ecclesiastici ottenuti in precedenza. Ebbe vari figli illegittimi da diverse donne, incluso Virginio che fu sempre il prediletto (la madre era Orsola Sassomarino) e che alla fine riconobbe, educandolo all'amore per la letteratura.

La rottura con Ippolito e il rapporto con Alfonso

I rapporti col cardinale Ippolito si incrinarono definitivamente nel 1517, quando il prelato fu nominato vescovo di Buda e pretendeva che Ariosto lo seguisse quale suo segretario in Ungheria: il poeta si rifiutò, motivando la scelta con motivi di salute (soffriva in effetti di stomaco, anche se questa appare più come una scusa per non lasciare la Benucci e il figlio Virginio) e fu quindi licenziato dal suo protettore, ritrovandosi senza lavoro. È probabile che il "gran rifiuto" fosse motivato anche da ragioni di orgoglio personale, poiché la pubblicazione nel 1516 della prima edizione del poema aveva dato grande fama all'Ariosto e lui mal si adattava al ruolo subalterno cui il servizio al cardinale lo costringeva (lui stesso giustificò ironicamente la sua scelta nella Satira I). Dovette comunque trovare un nuovo impiego e nel 1518 fu assunto dal duca di Ferrara Alfonso I, in una posizione di minor disagio personale e maggiore dignità; la sua fama a corte era grande, tuttavia le sue condizioni economiche erano sempre modeste e ciò lo indusse ad accettare, sia pure a malincuore, l'incarico di governatore della Garfagnana dal 1522 al 1525, periodo di grande difficoltà per lui. La Garfagnana era da poco tornata sotto il controllo degli Este ed era una regione remota e selvaggia, per di più infestata da bande di briganti e focolai occasionali di peste, per cui si può comprendere il poco entusiasmo con cui Ariosto assolse l'incarico, riuscendo comunque a compiere in modo dignitoso il suo compito (tornò poche volte a Ferrara per vedere la Benucci e il figlio Virginio). Nel 1528 sposerà in segreto la donna, sempre per conservare i propri benefici ecclesiastici, dopo che Alessandra era rimasta vedova del marito.

Il ritorno a Ferrara e gli ultimi anni

Nel 1525 poté tornare a Ferrara e col denaro messo assieme grazie al servizio svolto, oltre che attingendo all'esigua eredità paterna, si comprò una casetta in contrada Mirasole con attiguo orticello, fatto banale ma cui il poeta diede grande

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importanza e che ai suoi occhi era il simbolo di una raggiunta indipendenza economica: sulla facciata della casa fece scrivere il distico latino Parva, sed apta mihi, sed nulli obnoxia, sed non / Sordida, parta meo sed tamen aere domus ("Piccola, ma adatta a me, ma non soggetta a nessuno, ma non miserabile, ma tuttavia acquistata col mio denaro"). Qui si ritirò a vivere negli ultimi anni insieme alla

Benucci, sposata nel 1528, e al figlio Virginio, inoltre si dedicò alla riscrittura del Furioso che aveva avuto una seconda edizione nel 1521 e che ora il poeta voleva ancora rivedere, accrescendone la materia e soprattutto modificando la lingua secondo i dettami di Pietro Bembo, che aveva conosciuto e di cui era diventato amico. Negli ultimi tempi il poema veniva sottoposto ai giudizi e alle critiche degli amici letterati che frequentavano la sua casa e l'ultima definitiva edizione vide la luce nel 1532, pochi mesi prima della morte dell'autore avvenuta il 6 luglio del 1533. La notizia della sua scomparsa non fece rumore e raggiunse la corte estense solo pochi giorni più tardi, e i funerali si svolsero in forma modesta, secondo il suo stesso volere, nella chiesa di S. Benedetto; i suoi resti vennero tumulati nel 1801 nella sala maggiore della Biblioteca comunale ferrarese, dove riposano tuttora.

Ariosto uomo del suo tempo

Ludovico Ariosto era di famiglia aristocratica, benché questa avesse un patrimonio alquanto dissestato, e durante tutta la sua vita fece parte di quel mondo nobile che esauriva il suo orizzonte nei limiti angusti della corte, un ambiente chiuso e disinteressato al destino delle classi subalterne: ciò non vuol dire che il poeta ignorasse la complessità e le implicazioni della società cinquecentesca, tuttavia è chiaro che tutta la sua visione letteraria risente di questa prospettiva e rientra pienamente in quel "classicismo aristocratico" che è largamente dominante nella civiltà rinascimentale, trovando espressione soprattutto nella sua opera principale, l'Orlando furioso. Nel poema, infatti, la cavalleria e il suo sistema di valori vengono altamente celebrati, tuttavia con maggior coscienza critica di quanto non avvenisse nell'Innamorato di Boiardo e con la consapevolezza che quel sistema sociale stava andando in crisi, a causa anche del declino della figura militare del cavaliere e dell'evoluzione delle guerre. La visione di Ariosto è perciò realistica e in linea coi tempi, fatto che risente della particolare condizione del poeta che era cortigiano e sperimentava su se stesso i limiti che questo ruolo imponeva nella società del primo XVI sec., essendo l'uomo di corte sempre più uno stipendiato del signore al suo completo servizio e sottoposto talvolta alla sua tirannia, in modo diverso da quanto avveniva ad es. alla corte di Lorenzo de' Medici nella Firenze del Quattrocento. Questo vale per l'esperienza di Ariosto soprattutto al servizio del cardinale Ippolito, almeno fino alla decisione di non seguirlo in Ungheria che gli costerà il posto, e trova espressione in alcune delle Satire scritte a partire dal 1517, come la prima in cui giustifica in modo ironico la scelta di rompere col suo protettore e lamenta la triste situazione del segretario, oppure quella in cui, rivolgendosi all'amico Pietro Bembo

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cui chiede un precettore per il figlio Virginio, si sfoga ricordando di essere stato "oppresso" dal cardinale che non lo "lasciò fermar molto in un luogo" e lo trasformò "di poeta, cavallar", per cui era così impegnato da non avere il tempo di imparare il greco e altre lingue antiche (VI, 232 ss.). La critica della corte torna anche nel poema, specie nell'episodio di Astolfo sulla Luna dove "il servir de le misere corti" viene sferzato con ironia e dove si punta il dito soprattutto sull'adulazione che è la miglior qualità per il cortigiano, per cui emerge con chiarezza la denuncia della progressiva riduzione della libertà intellettuale di chi è al servizio dei potenti, situazione che si sarebbe ulteriormente aggravata nell'età della Controriforma. Nonostante questa visione critica, tuttavia, va detto che Ariosto all'ambiente di corte seppe ben adattarsi e la sua critica non andò mai al di là di una blanda ironia nei confronti dei suoi potenti protettori, se è vero che passò dal servizio di Ippolito a quello del duca Alfonso e fu in stretti rapporti con i migliori esponenti della società aristocratica del suo tempo, inoltre (come detto) la sua visione del mondo ignora o quasi il destino degli umili che erano esclusi dalla dimensione dorata della corte rinascimentale, nei confronti dei quali Ariosto, come gran parte dei suoi colleghi scrittori del Cinquecento, ostentò sempre indifferenza se non disprezzo (sul punto si veda specialmente il poema e la rappresentazione in esso del mondo contadino).

Le poesie latine e volgari

La prima attività poetica di Ariosto fu in latino e sembra, tra l'altro, che egli aspirasse inizialmente alla gloria proprio in questo campo, anche se fu un periodo di breve durata: scrisse circa una settantina di componimenti variamente ispirati ai principali autori classici studiati in gioventù, tra cui Catullo, Virgilio, Ovidio, Orazio, nessuno dei quali rivela particolari elementi di interesse e che risentono di una certa mancanza di esperienza. Più interessanti le Rime in volgare scritte durante un arco abbastanza ampio di tempo, la cui edizione definitiva è postuma e risale al 1546: si tratta di liriche di stampo petrarchista come la maggior parte di quelle composte in quegli anni, anche se il petrarchismo di Ariosto non è di stretta osservanza e le poesie rivelano una notevole originalità, mentre i temi spaziano da quello amoroso alle osservazioni morali, subendo ancora l'influsso della poesia latina classica. Le Rime comprendono una novantina di componimenti tra cui sonetti (in maggior parte),

madrigali, canzoni, nonché due egloghe e una trentina di capitoli in terza rima, scritti in una lingua che riproduce fedelmente il toscano letterario secondo la proposta del Bembo, proprio come avverrà per il Furioso. Una certa attenzione è riservata da Ariosto anche ai poeti minori della tradizione ferrarese, incluso Boiardo che con i suoi Amorum libri rappresenta uno dei modelli, per cui la lirica ariostesca non si rifà strettamente al "canone" teorizzato dall'amico Bembo e si muove in modo ancora relativamente autonomo, cosa che di lì a qualche anno non sarebbe stato più possibile. Da ricordare, infine, che il petrarchismo più ortodosso fu oggetto di ironia da parte dell'autore e si ha un'eco di questa sua posizione in un passo del poema,

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quando Orlando, ormai impazzito, "petrarcheggia" alla maniera dei più rigorosi emuli del Canzoniere.

Le Satire

Tra i componimenti poetici di Ariosto rientrano anche sette Satire in terza rima, composte tra il 1517 e il 1525 e dedicate a vari argomenti attinenti alla vita dell'autore che si ispira in modo evidente al poeta latino Orazio: in comune con i Sermones i testi di Ariosto hanno lo stesso carattere bonario e uno stile giocoso e "mediocre", in quanto non prendono di mira in modo acre un bersaglio polemico e si limitano a osservazioni ironiche di natura moraleggiante sui costumi della società e del mondo. La scelta del metro rientrava in questi criteri, poiché la terza rima o "capitolo" stava diventando nella poesia del XVI sec. tipico di quei componimenti in tono minore e discorsivo, dal contenuto spesso grave e moraleggiante, e Ariosto lo utilizza cimentandosi in un genere, quello della satira appunto, che fino ad allora non aveva avuto grandi esempi nella tradizione italiana. Le Satire hanno tema vario e alcune si riferiscono a episodi ben precisi della biografia dell'autore, come la I (1517) in cui motiva ironicamente il rifiuto di seguire il cardinale Ippolito in Ungheria e lamenta la condizione dell'uomo di corte, mentre la IV (scritta nel 1523 in

Garfagnana) racconta il suo soggiorno in quella terra e il desiderio di tornare a Ferrara, così come la VII del 1524 spiega il rifiuto (l'ennesimo...) di recarsi a Roma quale ambasciatore del duca Alfonso presso papa Clemente VII. Le altre sono dedicate a temi più generali o ad osservazioni morali, come la II (1517) che critica la corruzione ecclesiastica, la III (1518) che lamenta la vanità delle illusioni, la V (1521) che è dedicata al cugino Annibale Malaguzzi in procinto di sposarsi e discorre del matrimonio, la VI (1525) in cui chiede a Pietro Bembo di trovargli un precettore per il figlio Virginio e accenna alle vessazioni un tempo subìte dal cardinale Ippolito.

Le Satire sono concepite come epistole in versi che Ariosto indirizza a interlocutori reali, come i già citati Bembo e Malaguzzi o come il fratello Alessandro e il gentiluomo Ludovico da Bagno, con i quali chiacchiera alla buona e in modo apparentemente svagato, saltando da un aneddoto all'altro con inserzione di racconti e favolette di derivazione classica; l'atteggiamento è, come detto, bonario e indulgente, per quanto la famosa "ironia" ariostesca sia una sorta di filtro con cui egli rappresenta la realtà del suo secolo, della cui complessità è pienamente consapevole e che bacchetta in modo talvolta pungente, specie nei versi dedicati al suo ex-protettore Ippolito d'Este. Ne emerge il ritratto di un uomo perfettamente inserito nel mondo della corte che pure critica per molti aspetti, ma che sa accontentarsi di poco e rinuncia in una certa fase della sua vita a maggiori onori in cambio di una vita modesta e ritirata, criticando le eccessive ambizioni degli altri uomini che si affannano tanto per non ottenere gran che (è la stessa tesi che affiora in diversi passi del Furioso, ad es. nella rassegna delle cose perdute sulla terra che finiscono sulla Luna. Interessanti nelle Satire anche alcuni apologhi ispirati con evidenza alla

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letteratura classica, come la favola della gazza fedele al padrone che va al pozzo assetata e rimane indietro (III, 109 ss.), a indicare che c'è poco da sperare nella generosità dei potenti che preferiscono beneficare i loro figli e parenti (il riferimento è al nepotismo dei papi), o il racconto degli uomini che cercano di raggiungere la

luna (III, 208 ss.) e non vi riescono, proprio come coloro che sperano nella "ruota di Fortuna" e non raggiungono alcuno scopo poiché i beni autentici risiedono altrove.

Le commedie

Ariosto si dedicò anche all'attività teatrale nell'arco di buona parte della sua vita, sia come addetto all'allestimento degli spettacoli alla corte di Ferrara (il teatro rinasce nel Cinquecento dapprima proprio per impulso delle famiglie signorili), sia come autore di commedie la cui messa in scena curò personalmente e nelle quali talvolta lui stesso recitò: si tratta di una produzione interessante e tutt'altro che marginale nella carriera del poeta, anche se il grande successo e l'importanza preminente del poema finì per oscurare tutte le opere minori, che in seguito vennero sottovalutate dalla critica. Ariosto compose cinque commedie, le prime due in prosa (la Cassaria, 1508, e i Suppositi, 1509), anche se in seguito le riscrisse in versi, e le successive in versi sdruccioli (il Negromante, 1520, e la Lena, 1528), mentre una quinta commedia intitolata Gli studenti rimase incompiuta e venne terminata e pubblicata dal fratello

Gabriele col titolo La scolastica, nel 1547. Le commedie di Ariosto sono tra le prime del Cinquecento ad essere scritte in volgare e non in latino, proprio come la Calandria del card. Bibbiena il cui Prologo (scritto dal Castiglione) ne rivendica con orgoglio la novità, mentre la loro struttura è regolare e ispirata a quella delle commedie latine di Plauto e Terenzio, cui sono simili anche per la trama e le soluzioni sceniche (al centro vi è spesso un complicato intreccio con servi astuti e sciocchi, padroni avari, amanti contrastati, e così via). L'ambientazione è per lo più moderna, anche se i nomi dei personaggi sono spesso greci e la trama si rifà alle commedie latine del III-II sec. a.C., mentre numerosi sono i riferimenti alla società moderna e al malcostume che l'autore colpisce anche in altre opere, soprattutto nelle Satire. Ecco, in sintesi, la trama e le caratteristiche di ognuna di esse.

La Cassaria (1508)

Il titolo significa "Commedia della cassa" ed è esemplato su quello di diverse commedie di Plauto, ad es. la Aulularia ("Commedia della pentola"). Scritta inizialmente in prosa e in seguito versificata (nel 1528-29), la commedia è ambientata nella città greca di Metelino (oggi Mitilene, sull'isola di Lesbo) dove due giovani scapestrati, Erofilo e Caridoro, vogliono riscattare le fanciulle amate, Eulalia e Corisca, comprandole dal lenone che le sfrutta, Lucrano. Su consiglio del servo astuto Volpino, Erofilo dà a Lucrano in pegno una cassa di ori filati che ha

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