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Imperialismo ed equilibri internazionali

CAPITULO I Il contesto storico 11

1.5. Imperialismo ed equilibri internazionali

fece sentire l’esigenza non solo di avere a disposizione grandi quantità di materie prime, possibilmente a basso costo, ma anche di accaparrarsi nuovi mercati per i propri prodotti27. Dal punto di vista politico gli stessi governi sfruttarono, a seconda della convenienza, le operazioni imperialistiche. Difatti l’estensione territoriale ottenuta con l’annessione delle colonie permetteva non solo di assorbire grandi sacche di disoccupati, ma era presentata come un’operazione che avrebbe dovuto riscuotere il consenso e favorire la coesione nazionale. Si ottenevano perciò dei benefici su diversi versanti; da una parte a livello economico, dato che si dava alla popolazione più indigente la possibilità di un miglioramento, e dall’altra sociale, poiché si indebolivano le lotte dei lavoratori con l’allontanamento di tanti militanti. Inoltre la politica dell’espansione coloniale era una carta giocata a più riprese dai governi per guadagnare il favore delle varie forze sociali intorno al proprio operato e sviare l’attenzione dai gravi problemi interni.

Manca infine un ulteriore elemento da prendere in considerazione, imprescindibile per la valutazione di questa complessa realtà e che riguarda le argomentazioni culturali, filosofiche e scientifiche a sostegno e giustificazione della subordinazione di un paese da parte di un altro. Arricchirono tali pratiche i ben conosciuti motivi ideologici generati dal positivismo evoluzionistico che nutrirono i diversi nazionalismi, componenti fondamentali della vita culturale del primo Novecento28.

Di imperialismo non si può certo parlare a proposito dell’Italia e della Spagna (almeno non in questo secolo). I protagonisti nella corsa al controllo di spazi e di mercati mondiali furono principalmente l’Inghilterra, la Francia, il Belgio, l’Olanda, a cui si aggiunsero la Germania post-bismarckiana e altre due potenze extraeuropee, gli Stati Uniti d’America e il Giappone. Nonostante ciò, lo Stato spagnolo e quello italiano vennero coinvolti, secondo modalità diverse, nella voragine formata dall’agguerrito colonialismo

27 Va da sé che la spinta colonialistica e imperialistica delle maggiori potenze per la conquista di nuove aree vantaggiose per il loro sviluppo economico rispondesse in molti casi alle pressioni esercitate dai principali gruppi economici. Questi non solo avevano il potere di influire sulle decisioni di politica interna, come già si è visto, ma si facevano promotori di una più aggressiva espansione territoriale. Risulta evidente quindi come il nuovo sistema capitalista condizionasse pesantemente tanto la realtà interna dei singoli Stati quanto i rapporti internazionali. Dovuto agli effetti del capitalismo e alla formazione di un unico mercato unificato, potenziato da mezzi di trasporto sempre più rapidi e dall’ampliamento delle vie di comunicazione (si ricordi che l’apertura del canale di Suez risale al 1869), le tensioni tra gli Stati assumevano un netto carattere economico.

28 Va detto che le dottrine imperialistiche, a sfondo razziale, che accompagnarono lo sviluppo dell’espansionismo europeo difendevano, in linea generale, la superiorità dell’uomo bianco. Tali teorie non erano certo una novità, ma ora si tendeva a dotarle di un fondamento scientifico facendo ricorso ai concetti darwiniani della selezione naturale o quelli spenseriani sull’evoluzionismo. La lotta per la sopravvivenza doveva essere vinta dalla razza eletta, più forte e più dotata, grazie all’intenso sviluppo industriale e tecnologico di cui si beneficiava.

europeo, sebbene ricoprissero una funzione del tutto marginale nella politica di potenza interpretata dagli Stati del Vecchio Continente.

Per quanto riguarda la conquista di nuovi territori, la Spagna stava vivendo alla fine dell’Ottocento un’esperienza di segno contrario: il crollo definitivo del proprio impero. Già prima del disastroso confronto bellico con gli Stati Uniti, che condusse alla crisi del 1898, la Spagna dovette affrontare le insurrezioni indipendentistiche che scoppiavano periodicamente nelle sue colonie. Particolarmente gravi furono quelle di Portorico e di Cuba nel 1868. Le vicende della guerra cubana, durata dieci anni e terminata per mutuo accordo con la pace di Zanjón (1878), possono essere lette come i segni più gravi dell’incontenibile decadenza dell’Impero spagnolo. Cánovas, salito al potere negli anni Ottanta, ne era profondamente consapevole e parlava a questo proposito di decadencia de España. La cattiva politica coloniale, caratterizzata da un’ambigua gestione dei rapporti tra madre patria e territori occupati, contrassegnata da corruzione, abusi di potere, favoritismi e privilegi personali, fomentò in pratica i tentativi di rivolta e i movimenti indipendentisti.

In questa situazione problematica, la Spagna e il suo esiguo spazio coloniale furono travolti dalla crescente espansione imperialistica delle maggiori potenze europee. Il tentativo di salvarsi per via diplomatica rinunciando all’isolamento per allearsi con la Germania (1887, con l’adesione formale alla Triplice alleanza) e controbilanciare così le mire statunitensi sulle restanti colonie americane, si rivelò inefficace. Nelle guerre con Cuba, con le Filippine e in quella ispano-americana scoppiate alla fine del secolo, la Spagna pagò un caro prezzo in termini di vite umane e subì una disastrosa sconfitta che si annunciava tale fin dall’inizio.

Il Desastre colonial significò non solo un depauperamento territoriale e un grave problema sociale, quello dei soldati e delle loro famiglie che si ritrovavano a rientrare in patria senza mezzi di sostentamento, ma anche uno scacco morale senza precedenti. La sconfitta militare e le pesanti conseguenze materiali furono accompagnate dalla sensazione del fallimento di un intero popolo, un ridimensionamento delle proprie potenzialità ancora più grave se visto in relazione con il panorama europeo. In seguito a questi fatti la Spagna preferì mantenersi al margine della scena internazionale. Tanto i governi conservatori che quelli più progressisti, consapevoli della propria debolezza, non fecero nulla per uscire dall’isolamento diplomatico, nemmeno durante la Prima guerra mondiale.

Al contrario il nuovo Stato italiano espresse da subito l’intenzione di salire alla ribalta della scena internazionale. Si ricordi a tal proposito l’abile destreggiarsi di Cavour

nelle trame europee. Inoltre si tentò alla fine del secolo l’avventura coloniale in Africa con i ben noti risultati. La febbre per l’occupazione di nuovi territori si fece sentire, dopo gli anni Ottanta, anche nei governi italiani che, in tempi diversi, fecero del colonialismo un obiettivo del loro programma politico. Il primo tentativo risale alla fine degli anni Settanta, quando rivaleggiando con la Francia, l’Italia cercò di occupare la Tunisia, poi sotto protettorato francese dal 1882. La perdita dello stato africano, dove aveva un certo numero di coloni, spinse il governo italiano a cercare appoggi internazionali e ad uscire dall’isolamento diplomatico. L’unica alternativa che si poneva era di aderire all’area di influenza tedesca e venne firmata così la Triplice Alleanza con Germania e Austria (1882) con una clausola: la rinuncia delle terre “irredente” (Trentino e Venezia Giulia).

L’ingresso in questa alleanza nutriva l’aspirazione a far diventare l’Italia uno Stato forte sul modello germanico.

Era nel frattempo cambiata la linea di politica estera italiana che aveva obbedito fino agli anni Ottanta a criteri di moderazione e di equilibrio internazionale. L’Italia intraprese una più incisiva azione di conquista territoriale nell’Africa orientale. Qui venne fondata la colonia Eritrea ampliata poi a spese dell’Etiopia (1890) (sconfitta di Dogali) e venne acquisita, con il consenso dell’Inghilterra, parte della Somalia (1889). In seguito negli anni Novanta Crispi, per ottenere il consenso di vari settori della società e garantire così stabilità al proprio governo, diede nuovo impulso alle campagna di conquista coloniale puntando gli occhi su uno dei pochi Stati africani ancora indipendenti, l’Etiopia.

Anche questo tentativo si rivelò fallimentare, l’esercito italiano subì una pesantissima sconfitta a Adua (1896) che si sarebbe rivelata fatale per il suo governo e per la stabilità del Paese. In complesso, questa prima fase del colonialismo italiano non fu certo legata alle esigenze di un forte sviluppo industriale e capitalistico. Evidenziava piuttosto il prodotto della frustrazione per le gravi sconfitte militari subite e il bisogno di alleviare le misere condizioni di vita di una parte della popolazione con il miraggio di nuove terre da coltivare.

Mossa dalle stesse motivazioni ma coronata da successo fu invece, qualche anno dopo, la guerra per la conquista della Libia (1911-1912) promossa da Giolitti, dietro le insistenti e pressanti richieste dell’esercito e degli industriali, soprattutto dell’industria pesante che, come i propri omologhi europei, speravano da queste campagne militari lauti profitti derivanti dalle commisioni statali per la fabbricazione di armamenti. Il primo ministro pensava di ottenere così l’appoggio dei settori più importanti del Paese e dell’opinione pubblica, e poter attenuare la loro reazione di fronte ad un più incisivo

programma di riforme messo in atto dal suo governo. In realtà la guerra libica non esaudì le aspettative che aveva suscitato. Delusi furono coloro che avevano creduto di poterne trarre grandi vantaggi. Tale senso di insoddisfazione verso l’operato del governo si manifestò nel crescente movimento nazionalistico che, in polemica contro il sistema giolittiano e contro il sistema democratico-liberale, si era schierato a favore della guerra.

Gli stessi settori favorevoli alla partecipazione nell’espansionismo coloniale trascinarono lo Stato italiano nella catastrofe della Prima guerra mondiale.

Per concludere, è necessario fare qualche osservazione su quello che fu il maggior evento di portata internazionale della storia novecentesca, vale a dire lo scoppio del primo conflitto mondiale. Contribuì al verificarsi della situazione bellica il concorrere di vari fattori storici quali imperialismo, industrializzazione, conflitti sociali. Nel loro complesso decretarono la fine di un’epoca, che ha nella cosiddetta Belle Époque un ultimo singulto, e posero le premesse di quella contemporanea. In questo processo di trasformazione che caratterizzò il periodo di fine secolo, la guerra mondiale viene considerata da molti un limite cronologico a partire dal quale può dirsi compiuta la fase di cambiamento, o se si vuole di crisi, apertasi nel secolo precedente. In questo senso viene letto da alcuni storici il significato del conflitto bellico che coinvolse quell’Europa che aveva goduto nella seconda metà dell’Ottocento di un lungo periodo di pace, “la guerra mondiale inaugurò tragicamente una nuova fase storica, in cui nuovi protagonisti irruppero sulla scena, segnando la crisi dell’Europa liberale e borghese”29.