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Sviluppo industriale e modificazioni del sistema capitalistico

CAPITULO I Il contesto storico 11

1.3. Sviluppo industriale e modificazioni del sistema capitalistico

I cambiamenti politici avvenuti nella seconda metà dell’Ottocento si intrecciavano sempre più strettamente con le trasformazioni economiche e sociali in atto in Europa. Si assisteva infatti a una progressione esponenziale e positiva della crescita demografica, della produttività e del reddito che raggiungevano livelli mai conosciuti prima. Se si considera il primo dei fattori citati, si può annotare il dato significativo secondo cui la popolazione europea passò dai 274 milioni di abitanti del 1850 ai 423 milioni del 1900, ai 460 del 1914. Per spiegare il generalizzato aumento demografico favorito d’altro canto dal calo della tassa di natalità infantile, vanno addotti due motivi fondamentali relativi alle zone interessate da questo processo: l’assenza di grandi conflitti bellici in Europa e un

progressivo miglioramento delle condizioni di vita specialmente per le classi più indigenti (si vedano anche i progressi compiuti dalla medicina moderna in questo senso).

In correlazione al fenomeno dell’aumento della popolazione sono da intendere le radicali trasformazioni nel campo delle attività economiche. Si assisteva infatti all’inarrestabile allargamento del sistema produttivo industriale a nuovi Stati come l’Italia e la Spagna che alla fine del secolo presentavano ancora una situazione preindustriale in buona parte dei loro territori. L’industrializzazione a base capitalistica, fenomeno circoscritto nella prima metà del secolo solo ad alcuni Paesi (detti per questo motivo first comers, come l’Inghilterra, il Belgio, o ad alcune zone della Francia e della Germania), si mise in moto negli anni Settanta e Ottanta nella maggior parte degli Stati del continente.

Ci si trovava di fronte a una nuova fase della Rivoluzione industriale le cui caratteristiche e conseguenze si differenziavano molto da quelle del primo sviluppo industriale, soprattutto per la forte innovazione tecnologica e per il nuovo capitalismo.

Per quanto riguarda il primo aspetto qualificante della nuova fase della Rivoluzione industriale va segnalata la collaborazione sempre più stretta tra ricerca scientifica, tecnologia e il mondo della produzione. L’applicazione tecnica delle scoperte scientifiche, a cui aveva dato impulso la cultura positivistica, comportò un’evoluzione delle dinamiche produttive con l’introduzione, ad esempio, di nuovi macchinari, forme di energia e materiali che modificarono profondamente le modalità del lavoro in fabbrica18. Inoltre, la rivoluzione tecnica e scientifica ebbe benefici diretti sulla qualità della vita di tutti i giorni dati soprattutto dalla diffusione di una serie di “novità” prima inimmaginabili, quali la lampadina, il motore a scoppio, il telefono o il cinematografo. Infine, il collegamento diretto tra progresso scientifico e tecnologico fu imprescindibile anche per le avvenute trasformazioni nel settore dei trasporti. La messa a punto di veicoli, sia terrestri che di navigazione, sempre più affidabili e veloci insieme al potenziamento delle vie ferroviarie e marittime furono determinanti per lo sviluppo economico in senso industriale e per la creazione di un mercato unificato, prima europeo e poi mondiale.

In quanto al secondo aspetto si possono ricordare le modificazioni postesi in atto nella struttura economica. Se il sistema capitalistico che aveva accompagnato la prima fase della Rivoluzione industriale era stato contrassegnato dal libero scambio e dalla libera concorrenza, il nuovo capitalismo assunse ben altri caratteri; portò come conseguenza alla

18 Si creavano nuovi modi di produzione che prevedevano da una parte la concentrazione di macchinari e di manodopera in zone appunto industriali, e dall’altra la meccanizzazione e la divisione del lavoro.

concentrazione di imprese e di capitali e al protezionismo doganale19. Da tale situazione derivarono molteplici cambiamenti, tra i quali, il maggior peso politico dell’alta borghesia capitalista, principale detentrice del potere economico. Gli interessi dei gruppi monopolistici infatti apparivano sempre più intrecciati alla politica dello Stato. Pertanto il collegamento tra potere economico e i gruppi politici al governo determinò un coinvolgimento diretto dello Stato nelle problematiche economiche, spinto sempre di più ad intervenire direttamente in questioni economiche e sociali. In questo senso lo Stato da liberista diventò interventista. Per tutelare le attività produttive dovette agire non solo a livello internazionale ma anche nazionale; fu costretto, infatti, a interporsi e a prendere posizione nelle lotte tra capitale e lavoro, e lo fece a favore dei proprietari. Di fronte all’aggravarsi della questione sociale, a causa dell’esubero di manodopera e della crisi agricola della fine del secolo, le direttive governative operarono non più verso la realizzazione di riforme, che erano state sostenute dai gruppi politici progressisti fino agli anni Ottanta circa, ma con lo spiegamento di misure repressive. In questo modo le rivendicazioni proletarie furono ridotte a problema di ordine pubblico e provocarono l’uso della forza e l’intervento dell’esercito.

Va sottolineato che, pur assistendo alla fine dell’Ottocento al definitivo consolidamento del sistema industriale, le caratteristiche del sistema capitalistico e i nessi tra economia e politica non furono omogenei dovunque. Difatti si produssero diversi livelli di sviluppo che differenziavano Paese da Paese. Tendenzialmente si può osservare un divario tra un’area settentrionale dove l’industrializzazione si trovava in uno stadio più avanzato e un’area meridionale, tra cui l’Italia e la Spagna, con una situazione più arretrata e prevalentemente rurale. L’esordio industriale di queste ultime si ebbe a partire dagli anni ottanta dell’Ottocento. In quegli anni infatti entrambe si sforzavano di accorciare le

19 La trasformazione delle pratiche imprenditoriali si rese necessaria non solo per i problemi legati ai nuovi metodi di produzione e alle leggi del mercato, che provocavano, ciclicamente, il fenomeno della sovraproduzione, ma anche per la recessione economica che si visse dal crollo della Borsa di Vienna (1873) fino al 1896. Di fronte alla difficile congiuntura e alle incertezze a cui li esponeva il sistema liberista, la reazione dei grandi industriali fu di abbandonare la pratica del libero scambio per dare origine ad aggruppamenti tra aziende dello stesso settore (cartelli), a forme di consociazioni per il controllo finanziario delle imprese (holdings), a concentrazioni di imprese indipendenti (trusts) che tutelassero, attraverso il controllo della produzione e dei prezzi, la stabilità dei principali settori dell’industrializzazione. Dal capitalismo concorrenziale si passò quindi a quello monopolistico. Inoltre di fronte alle esigenze economiche e commerciali dei gruppi protagonisti di un settore vitale della vita nazionale, il governo di ciascun Paese fu costretto ad adottare misure protezionistiche. L’imposizione di alti dazi doganali sui prodotti stranieri che, di fatto, impedì la libera circolazione delle merci, aveva come scopo quello di favorire la produzione interna, secondo una logica di difesa degli interessi nazionali. In questo senso, lo Stato interventista diventò il maggior committente delle industrie private; non bisogna dimenticare infatti che in quegli anni la maggior parte degli Stati erano impegnati nel potenziamento del proprio apparato bellico. In molti casi venne a sostenere con commesse di favore (ad esempio per gli armamenti) o sovvenzioni statali (per gravosi investimenti industriali o per la realizzazione di infrastrutture) le attività economiche.

distanze e gettavano le basi per la modernizzazione dei rispettivi apparati economici.

Tuttavia, salvo lo sviluppo di alcune zone particolarmente trainanti, complessivamente permanevano ai margini e occupavano un posto di secondo piano rispetto a quegli Stati in cui, invece, il processo si era affermato pienamente.

È da premettere al discorso sullo sviluppo industriale di questi due Paesi che il debole sistema economico e creditizio di entrambi venne condizionato da fattori diversi, l’uno legato al processo di unificazione e l’altro alla grande instabilità politica e all’inarrestabile declino del proprio impero coloniale. Ciò nonostante presentavano delle caratteristiche di fondo similari sia per quanto concerne i motivi tecnici e strutturali di questo ritardo, sia per le modalità attraverso le quali si tentava di far decollare il sistema economico e produttivo nazionale. Si cercherà perciò di condurre il discorso in modo parallelo e comparativo.

Per quanto riguarda il primo punto, si può mettere in evidenza la stessa penuria di risorse naturali, la carenza di capitali da investire in un’efficiente rete di infrastrutture e in grandi impianti industriali, la ristrettezza del mercato interno e la poca capacità commerciale di penetrare le piazze internazionali e di stringere relazioni durevoli, insieme ad un’agricoltura fondamentalmente latifondista. Se si analizza separatamente la situazione economica di ciascuno dei due, vediamo che questo veloce elenco ben li rappresenta. Inoltre i dati dell’occupazione e della produzione rendono altrettante fedeli testimonianze. Per l’Italia, nel periodo dal 1896 al 1914, si ebbe un impetuoso sviluppo della produzione industriale, anche se “è vero che alla fine dell’età giolittiana l’agricoltura forniva ancora il 45% del prodotto nazionale e l’industria solo il 25%”20. Una situazione simile si verificava anche in Spagna. Qui tra gli anni 1861 e 1913 si registrò un progressivo e continuo aumento della produzione industriale che sperimentò una notevole impennata durante gli anni della Prima guerra mondiale, ma non ebbe luogo una vera trasformazione del tessuto produttivo. Il Paese rimase sostanzialmente agricolo. A riprova di questo, le cifre dell’occupazione dimostrano che l’economia spagnola “seguía siendo fundamentalmente atrasada, con una población activa de sólo el 35% casi toda ella dedicada a la agricultura”21.

Prima di introdurre il fenomeno dell’industrializzazione, andrebbe approfondito il discorso sul sistema produttivo dell’Italia e della Spagna in relazione al settore agricolo.

Quando si definisce l’economia spagnola e italiana arretrate e prevalentemente rurali, ci si

20 Cfr. G. Cracco-A. Prandi- F. Traniello, L’Europa e il mondo...., p. 364.

21 Cfr. F. García de Cortázar- J. M. González Vesga, Breve historia…, p. 535.

riferisce non solo al tardivo decollo del loro sistema industriale ma anche alla situazione dell’agricoltura che –salvo in alcune zone dell’Italia settentrionale e del Levante spagnolo– era ancora caratterizzata dall’estensione del latifondo. A differenza dei maggiori Paesi europei, le campagne spagnole e italiane presentavano una grande arretratezza tecnica e di sistemi di coltivazione, poca diversificazione delle specie coltivate, prevalenza di colture estensive scarsamente redditizie, come il grano, scarsità di capitali, drammatica condizione delle classi contadine vessate tra l’altro da una forte pressione fiscale da parte dello Stato.

La mancata riforma agraria e una più equa distribuzione delle terre rese ancora più pesante tale situazione che si era aggravata con la crisi agricola (dovuta all’invasione del mercato europeo dei grani americani e al crollo dei prezzi e delle vendite di quello continentale) che colpì l’Europa con l’inizio della “grande depressione” alla fine degli anni Settanta e che perdurò fino alla fine del secolo. Per superare le difficoltà causate da un mercato segnato da una crescente concorrenza, gli agricoltori europei dovettero scegliere se abbassare i costi di produzione con l’introduzione di mezzi forniti dalla tecnologia o con un rafforzamento delle misure protettive. Nelle aree dell’Europa meridionale, dove i latifondisti erano una classe molto potente e con forti influenze politiche, i governi optarono per l’introduzione di numerose tariffe doganali (in Italia nel 1887 e in Spagna nel 1891).

D’altro canto non erano solo i grandi proprietari terrieri a premere in tale direzione, ma anche i protagonisti della prima fase dell’industrializzazione. Le esigevano infatti per garantire lo sviluppo di alcuni rami industriali, soprattutto quello metallurgico, siderurgico, chimico e tessile. È da sottolineare che però l’applicazione di tariffe protettive in difesa della produzione interna ebbe, a lungo andare, gravi ripercussioni sul sistema agricolo, i cui ingressi dipendevano in buona parte dall’estero. Inoltre la scomparsa della concorrenza e la consuetudine dei favoritismi rallentarono, fino a smorzare del tutto, un già flebile processo di modernizzazione. La complicata situazione del settore agricolo sia italiano che spagnolo, fu in realtà un elemento vantaggioso per la nascita in questi Paesi della “grande industria”; da una parte si veniva formando un serbatoio di manodopera a basso prezzo e dall’altra le misure protezionistiche e il drenaggio di capitali con la vendita delle terre demaniali sostenevano l’avviarsi del sistema industriale.

Riprendendo il discorso sul processo di industrializzazione vanno segnalati alcuni fattori che accomunano i due Paesi. Tale processo si verificò in condizioni particolarmente similari, caratterizzate dal massiccio appoggio dello Stato e da una mentalità più spesso di

tipo speculativo che non imprenditoriale. Il primo aspetto, che si mostrerà strettamente legato al secondo, si traduceva in una serie di favoritismi concessi ai gruppi privati come privilegi fiscali, sovvenzioni, commesse statali, prezzi di favore etc.. Ma quella che per i protagonisti della seconda Rivoluzione industriale era stata una condizione iniziale determinante poi superata, in Italia e in Spagna diventò un elemento che caratterizzò il normale svolgimento della vita economica.

Un altro elemento comune della modernizzazione del sistema produttivo fu il disequilibrio risultante tra le zone rurali e quelle urbane. In Italia si verificò un forte dualismo tra il Nord, dove si concentravano le grandi fabbriche soprattutto nel triangolo industriale formato da Milano, Torino, Genova, e il Sud dalla struttura economica preminentemente agricola. Qui il calo delle vendite della fine del secolo, insieme alle misure protezionistiche e al drenaggio di capitali a vantaggio dello sviluppo industriale, pesarono in modo intollerabile. In Spagna, le regioni che conobbero un maggiore progresso furono la Cataluña, il País Vasco e le Asturias (zona di grande sfruttamento minerario), con la forte ascesa di Barcelona, Bilbao, Madrid e Valencia. Una delle conseguenze più rilevanti di tale disuguale distribuzione delle attività economiche fu l’aumento dell’instabilità sociale, provocata da un sempre maggiore impoverimento delle classi contadine costrette ad emigrare verso i poli industriali.